Considerazioni sulla durata effettiva
del corso di laurea in fisica.

Marco Toller, Trento, 2 febbraio 1998.

Vorrei aggiungere alcune considerazioni personali all'ottima relazione del gruppo di lavoro nominato dai presidenti dei CCL in fisica (nel seguito chiamata "relazione"). Probabilmente le mie idee sono condizionate dall'esperienza raccolta in una sede piccola come Trento.

Interpretazione delle statistiche e obiettivi.

Spesso si presenta la situazione affermando che la durata ufficiale del corso di laurea è di quattro anni, mentre la durata media effettiva supera i sette anni. Impostato in questo modo, il problema è insolubile senza snaturare completamete il corso di laurea.

Spero che l'indagine in corso confermi l'impressione generale che la laurea in fisica è apprezzata sul mercato del lavoro anche in occupazioni diverse dalla ricerca fondamentale. Ci vorranno molti anni prima che il dottorato, accorciato e ristrutturato (un'altra cosa da fare!), conquisti una posizione sul mercato in campi diversi dall'insegnamento universitario e dalla ricerca fondamentale. Nel frattempo è molto pericoloso abbassare drasticamente il livello del corso di laurea.

Per fortuna, la situazione non si può descrivere correttamente nel modo sopra indicato.

Innanzitutto la durata ufficiale tU è di quattro anni e sei mesi, perché le lezioni iniziano in ottobre e ci si può laureare in marzo senza iscriversi fuori corso.

Inoltre la curva f(t) che descrive la distribuzione statistica del tempo t necessario per laurearsi ha una forma tale che non è corretto riassumerla con il valore medio tA. La curva cresce rapidamente ed ha una lunga coda più o meno esponenziale e questo fa pensare che essa descriva la sovrapposizione di due fenomeni diversi.

Uno di questi è la naturale diversità della capacità e della predisposizione degli studenti agli studi scientifici. Esso, in assenza del secondo fenomeno, è descritto da una curva di distribuzione f1(t) abbastanza stretta e senza coda, dato che gli studenti inadatti non si laureano e non compaiono nella statistica.

L'altro fenomeno è l'impegno a tempo parziale di molti studenti, discusso nel prossimo punto. Esso è descritto da una funzione di distribuzione f2(t'), dove t' è il ritardo introdotto dalla natura parziale dell'impegno. Un modello ragionevole è porre

f2(t') = a delta(t') + (1-a)b theta(t') exp(-b t').

Il primo termine (delta di Dirac) rappresenta gli studenti a tempo pieno ed il secondo descrive una coda dovuta agli studenti a tempo parziale (theta è la funzione a scalino).

La distribuzione osservata è data dalla convoluzione

f = f1*f2.

Come si sostiene nel prossimo punto, la durata ufficiale tU del corso deve essere confrontata con il tempo effettivamente impiegato dagli studenti a tempo pieno e dunque in una situazione ottimale deve essere vicina al massimo tE della curva f1(t). Supponendo che f1(t) sia simmetrica attorno a tE, si vede facilmente che tE sta tra il valore tH in cui la funzione osservata f(t) raggiunge (crescendo) la metà del suo valore massimo ed il valore tM in cui f(t) è massima. Si ha tE = tH quando f2(t') = b theta(t') e tE = tM quando f2(t') = delta(t'). La prima situazione sembra più vicina alla realtà.

I parametri tH e tM sono semplici da determinare e, siccome non coinvolgono la coda di f(t) sono disponibili senza aspettare troppi anni. Pertanto essi sono particolarmente adatti per controllare gli effetti di eventuali azioni correttive. Queste considerazioni permettono di stabilire un ragionevole obiettivo:

il valore tH in cui la funzione di distribuzione osservata f(t) raggiunge crescendo la metà del suo valore massimo deve tendere a tU = 4.5 anni.

Si tratta di un obiettivo raggiungibile (se nessuno mette pali tra le ruote...) al quale si può lavorare con un minimo di soddisfazione.

Considerazioni sul tempo parziale.

Per gli studenti, lo studio a tempo parziale può essere una necessità (studenti lavoratori) o anche una libera scelta. Per esempio uno studente può voler praticare un'altra attività sportiva, musicale... o, semplicemente, potendolo fare, vuole godersi la vita. Non mi pare che l'Istituzione universitaria abbia alcun diritto di intromettersi in queste faccende. Se lo Stato ritiene che vi sia qualche cosa di anomalo nello studio a tempo parziale, deve intervenire con provvedimenti di carattere politico-sociale, riguardo ai quali, come fisici, non abbiamo alcuna competenza.

Comunque il tempo parziale è un fenomeno sul quale i nostri provvedimenti non possono influire e dobbiamo considerarlo come un dato di fatto. Per questo propongo di stabilire i nostri obiettivi e controllare i nostri risultati depurando i dati statistici dagli effetti del tempo parziale con le considerazioni esposte sopra o con metodi più raffinati.

Naturalmente, l'Università deve offrire anche agli studenti a tempo parziale (qualunque sia lo loro motivazione) il migliore servizio possibile. Per esempio, dovrebbe:

Se il secondo punto viene realizzato, non mi pare che la scelta del tempo parziale possa danneggiare la collettività (forse in certi casi le famiglie!) e dunque non dovrebbe essere colpevolizzata. Nel recente rapporto ministeriale si parla di "contrattualità del rapporto studenti-ateneo". Secondo me, non dovrebbe trattarsi di "contratti-capestro" pluriennali. Lo studente, come qualunque altro "consumatore", dovrebbe poter "acquistare" dall'Università volta per volta i servizi di cui ha bisogno e "pagare" il corrispettivo. L'Università poi certifica i risultati raggiunti.

Incentivi agli studenti.

Nella relazione si propone di incentivare gli studenti ad accelerare la loro carriera universitaria, evitando di dedicare un tempo eccessivo alla preparazione degli esami. Sono daccordo, specialmente per quegli incentivi che comportano anche un miglioramento della didattica.

Ritengo però che si debba procedere con prudenza e gradualità, controllando costantemente gli effetti. Infatti c'è un pericolo di "overshoot", cioè di ottenere effetti maggiori di quelli previsti e desiderati. In altre parole, rischiamo, tra qualche anno, di dover incentivare gli studenti a preparare con maggior cura i loro esami.

Dico questo perché ho l'impressione che gli studenti siano molto ricettivi in questo campo e che già qualche cosa si sta muovendo senza alcuna azione da parte nostra. Forse questo è dovuto a pressioni sociali o famigliari, od a tutti i discorsi che si fanno in varie sedi sulla durata degli studi.

Per esempio, gli esami del terzo anno superati hanno avuto un forte incremento nello scorso anno accademico 96-97 (stiamo ancora facendo la sessione di febbraio). Non si può attribuire questo ai provvedimenti discussi in seguito, che si riferiscono al presente anno 97-98. Sarebbe utile sapere se analoghi effetti si osservano in altre sedi.

Riorganizzazione della didattica.

La via maestra per diminuire la durata degli studi consiste nel migliorare la didattica, il coordinamento tra i vari corsi, la scelta degli argomenti importanti su cui insistere. In questo campo non c'è pericolo di "overshoot", perché i docenti, come è giusto e naturale, sono ben convinti della bontà dei loro metodi e poco disposti a modificarli. La gradualità è dunque inevitabile, ma qualche cosa si sta facendo, in sostanziale accordo con quanto suggerito nella relazione. Come contributo alla discussione, elenco alcuni provvedimenti attuati o in corso di attuazione a Trento ed i problemi trovati nella loro applicazione. C'è molto lavoro da fare ed il risultato si potrà controllare tra qualche anno.